del prof. Luigi Vero Tarca
In fin dei conti le pratiche filosofiche scaturiscono dalla pratica filosofica par excellence: dire la verità, parlare con verità. Dal momento, poi, che la verità filosofica ha essenzialmente a che fare con l’intero, la parola che dice la verità, riguardando ogni cosa, riguarda anche il gesto stesso in cui tale dire consiste. Anzi, lo riguarda in maniera peculiare. Perché – e questo costituisce un aspetto decisivo dell’esperienza filosofica – proprio l’atto del dire può determinare il valore di verità della proposizione che si afferma. Per esempio, se esclamiamo “C’è un perfetto silenzio!”, con questo stesso dire interrompiamo il silenzio e rendiamo falso ciò che credevamo di affermare con verità. Viceversa, quando diciamo “Io vi sto parlando”, appunto con queste parole rendiamo vero ciò che stiamo dichiarando.
Il problema è che l’insegnamento filosofico standard è più incline a determinare il rovesciamento in negativo (cioè la falsificazione) piuttosto che quello in positivo (cioè la verificazione). Come accade per esempio quando – a scuola o all’università – interroghiamo gli studenti, e poi diamo loro il voto, per vedere se sanno ciò che ha insegnato Socrate; il quale però, sfortunatamente per noi insegnanti, l’unica cosa che ha insegnato, e che quindi “sapeva”, era proprio quella di non sapere. Ma qualcosa di simile, poi, accade quasi inevitabilmente con tutte le altre grandi parole della sapienza umana. Pensiamo anche solo al fatto che “[il] Tao che può essere detto non è l’eterno Tao” (Lao Tzu, Tao Tê Ching). Oppure riflettiamo sul fatto che i seguaci del messaggio evangelico (ama il tuo prossimo, anche i tuoi nemici), proprio per difendere queste „divine‟ parole, hanno in certi momenti incarcerato e messo al rogo i nemici di tale messaggio: al fine di tramandarlo, lo hanno tradito. Insomma, uno dei problemi fondamentali della pratica filosofica è che proprio il gesto con il quale si enuncia la verità filosofica rischia di rovesciarne il significato ed il valore.
La mia esperienza delle pratiche filosofiche è nata in gran parte proprio dalla riflessione su tali questioni. Noi, nell’Accademia, siamo i custodi delle altissime parole della filosofia – quelle di Socrate, di Platone, dello Stoicismo, di Sant’Anselmo, di Hegel e così via – ma il modo in cui le tramandiamo fa spesso sì che proprio nel momento in cui le trasmettiamo ne rovesciamo il significato; in particolare perché il contesto al cui interno le comunichiamo ne ostacola la comprensione autentica. Quelle sono parole di verità, parole di vita. Noi le “sequestriamo”, e in conseguenza di ciò finiamo poi per gestirle in una maniera che molto spesso ne smarrisce il valore.
Da questo punto di vista l’accademia può essere vista come una grande pentola, nella quale sono contenuti tutti gli ingredienti necessari per fare una un’ottima zuppa di verdure. Dunque qualcosa di indispensabile per un ottimo pasto. Ma… manca la fiamma. Non si riesce ad accendere la fiamma; le verdure non cuociono, niente cena! Ecco, io ho inteso le pratiche filosofiche proprio come l’accensione della fiamma della verità. È chiaro che buttare via il contenuto della pentola sarebbe stupido, e facendolo non si otterrebbe alcun risultato; ma è altrettanto chiaro che restare (mentalmente) all’interno della pentola non sfiora nemmeno il problema, per risolvere il quale è necessario uscire dal sistema di riferimento (uscire dalla pentola); nel nostro caso: uscire dalla „logica‟ accademica.
Sia chiaro – lo dico di passaggio ma il tema è importante – che la fiamma è pericolosa; e per questo bisogna comprendere anche le ragioni di chi, per evitare il rischio di un incendio, finisce per bandire l’uso della fiamma. In effetti, la fiamma filosofica è davvero rischiosa, e quindi in qualche senso pericolosa. Anche per questo va custodita in un “tabernacolo”. Questa, però, è anche la morte della sua vitalità. In particolare, se noi incominciamo con l’accettare che sono altri soggetti, non i filosofi, che hanno il diritto di decidere tale questione (cioè l’uso o meno della fiamma, e le sue modalità di utilizzo), allora siamo già fuori gioco. La filosofia è pericolosa, perché mette in questione tutto, chiede ragione di tutto. Ma questi tratti sono anche il suo pregio e la sua vitalità.
Sicché, una volta capite le ragioni pure di chi impedisce che venga usata la fiamma filosofica, bisogna poi anche addestrarsi a usare bene il fuoco.
La pratica filosofica costituisce dunque, da questo punto di vista, un elemento integrativo invece che sostitutivo della tradizionale attività filosofica (scolastica, accademica etc.).
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